sabato 25 aprile 2015

25 Aprile

Esco dalla palestra.
E' buio.
Un tempo di nuvole cariche di pioggia che non vogliono piangere.
Lo stereo della macchina suona Janine di David Bowie e ricevo una telefonata.
Hello Janine.

A casa dei nonni è un via vai di parenti più stretti e vicini.
Ognuno affronta a modo suo il dolore.
Mio nonno chiede se io pensi che lui stia bene con quei capelli lunghi, poi piange.
Mia zia ha deciso di prendere il controllo della situazione e in casa sta facendo tutto lei.
Poi c'è la cugina di mio padre.
Infermiera.
"Io ci sono passata, so come si fa. Ci penso io".
Perse il marito che era giovane ed affronta la situazione con dolore composto e distaccato ed intanto mi parla dei suoi nipoti che la sera prima le avevano dedicano una scenetta buffa.
La vicina.
Ostinata a pulire quelle scarpe alla perfezione.
"V. era una persona precisa e le sue scarpe devono essere perfette".

Una donna con tre figli maschi, ma in casa tutto è gestito dalle donne.
E' sempre così.
Anche nella morte.
Mio zio si lamenta, trova che il vestito scelto non sia esattamente il più bello.
L'altro zio vaga da una stanza all'altra, sembra fare cose che non sta facendo.
Mio padre è silenzioso.
Io guardo la valigetta aperta dei tipi delle pompe funebri, tra vari attrezzi simili a quelli di un chirurgo c'è anche uno di quei pennelli per il fard.

Nella "burocrazia" richiesta dal momento, prendo l'album per scegliere una foto.
Ne becco una di lei settantenne, con quell'espressione sua tipica di quando faceva la puntigliosa e la precisina... è ritratta mentre si sistema il rossetto allo specchio.
Penso che la cosa che più possa ferire non sia la visione di un corpo inanimato, perché li per lì psicologicamente ancora non te ne rendi conto, ma il ricordo di come lei fosse prima di diventare bambola.

Parlo per la prima volta e decido che quel diavolo di maglione che hanno scelto per rivestirla sia orribile.
Quindi prendo zia, apro l'armadio, scopro che aveva davvero pochissimi vestiti, scelgo una giacca nera, un foulard a pois e andiamo in camera a cambiarla.

La guardo.
Non è più lei.
Sembra una bambola.
Parliamo cercando di esorcizzare il dolore e l'imbarazzo, ci sentiamo un po' delle stronze per aver deciso di toccarla ancora e ci scusiamo con lei, ma quel maglione è indecente per una donna che era abituata a essere sempre "in ordine".
E non fa effetto toccarla e cambiarla perché è fredda, non parla, non mi guarda, non c'è.
La alziamo reggendole la schiena.
Calda.
Questo fa strano.
E quella lacrima che le esce dall'occhio, le riga con freddo distacco una guancia scavata e fredda:
sono gli ultimi ricordi che il suo corpo ha della vita.

Ognuno dunque affronta a modo suo il dolore.
Chi parlando, chi piangendo, chi in silenzio catatonico, chi lamentandosi e chi litigando.

Oppure c'è chi scrive ricordandoti sulle note di Janine in quell'immagine di te allo specchio così splendidamente viva.


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